L’UNDICENNE VS FERRAGNI: CHI INSEGNA AI GENITORI COME SI EDUCANO I FIGLI SUI SOCIAL?

Non serve domandarsi se Giulia, la ragazzina undicenne che ha ingaggiato una tenzone con Chiara Ferragni, abbia ragione oppure torto. Per entrare nel merito di una querelle, farsi un’idea e parteggiare, occorre prima di tutto che gli sfidanti siano legittimamente ammessi al dibattito. Giulia non lo è, banalmente per la sua età anagrafica. In Italia, il codice della Privacy italiano prescrive che l’età minima per iscriversi a un social network sia di 14 anni. Un under 14, potrebbe accedervi soltanto con il consenso del genitore. Tuttavia, il Regolamento Europeo (GDPR) prevede una soglia minima di 16 anni e, comunque, la policy Instagram fissa il limite a 13 anni. Queste sono le regole, tant’è che dopo la vicenda Instagram ha tempestivamente provveduto a chiudere il suo profilo.

Quando una situazione o un contesto vengono normati, una ragione c’è. Prima di una certa età, i social media presentano rischi, o anche solo situazioni, che non si è pronti a fronteggiare. Inoltre e nel caso specifico, all’età di Giulia non si hanno né gli strumenti né l’esperienza per intavolare un confronto con un’adulta di 36 anni, non importa quanto influente o famosa. Giulia non può comprendere nulla delle strategie comunicative della Ferragni, né della sua battaglia che, per quanto la si condivida o meno, resta trasparente e coerente. Se lasciamo esposti i ragazzi (praticamente bambini) a contenuti che non possono filtrare, ne rimarranno colpiti con i modi, e la potenza, che le loro fragilità specifiche comporteranno.

Oggi si fa un gran parlare delle potenziali ricadute dei social media sulla salute psicologica dei giovanissimi. La scorsa settimana, il massimo funzionario USA per la salute pubblica, Vivek Murthy, ha emesso un avviso parlando, a riguardo, di “emergenza nazionale”. Sebbene si susseguano gli studi, non abbiamo ancora uno storico scientifico sufficiente che stabilisca un nesso di causalità tra social media e disturbi psicologici, né tra social media e supposti maggiori rischi per i ragazzi. Ma è indubbio che la giovane età sia una fase fertile della vita per l’insorgere di fragilità perché l’individuo è in formazione. Dunque, qualsiasi cosa con la quale i ragazzi vengono in contatto è destinata in qualche modo a “cambiare le cose”, ad avere un effetto. Quindi possiamo essere certi che i social media abbiano un impatto. Come possiamo noi adulti prepararli a questo? Il problema è duplice: sembra che in parte non possiamo, e in altra parte non vogliamo.

Nel primo caso siamo socialmente esposti a un vulnus di educazione e formazione. Per anni, la scuola ha insegnato l’educazione civica: uno zoccolo duro di nozioni per dare un’infarinatura di contesto su cosa significasse condividere uno spazio e un tempo in forma organizzata e codificata. A casa, le famiglie impartiscono un’educazione basata su valori e altrettante nozioni di contesto, talvolta soggettive, talaltra oggettive: non accettare caramelle dagli sconosciuti, non si attraversa la strada con il semaforo rosso, se rientri dopo una certa ora devi essere in gruppo, non salire in auto se il guidatore ha bevuto, non si picchia nessuno perché la violenza non è la risposta, e via dicendo. Oggi nessuno dice ai ragazzi: non accettare di vedere offline persone che conosci online, o non inviare foto in DM, guarda che quella challenge di TikTok è pericolosa. Intanto, perché forse neanche sanno cosa sia un DM e che c’è una challenge virale su TikTok, ma poi perché ci cascano anche loro. I genitori stessi non hanno strumenti per orientarsi nel mondo online e difendersene: cedono alle relazioni fake inscenate soltanto per rubargli denaro, abbassano la guardia - come racconta la storia della donna partita da Roma per conoscere l’amico incontrato su Fb e poi da questi violentata -, non sanno riconoscere una email di phishing e trasformano inconsapevolmente la loro frustrazione e inadeguatezza in disapprovazione verbale: TikTok è il diavolo, i social fanno male. Oppure puntano il dito: perché Ferragni mostra qualcosa di inappropriato in un luogo virtuale frequentato da mia figlia?

Il disagio dei giovani che parte e cresce sui social media, dunque, dipende in gran misura dall’impreparazione dei caregiver, genitori e insegnanti in primis. Detto ciò, è importante focalizzare che i social media sono un ambiente popolato di persone, dove gli utenti interagiscono. Non è diverso, concettualmente parlando, da una scuola, un campo da calcio, un bar, una piazza. Ha caratteristiche proprie, ma lavora essenzialmente come ambiente. Per esempio, a scuola devi confrontarti con i brutti voti; a calcio con una performance negativa, l’esclusione dal gioco perché i compagni non ti passano la palla o un tifo contro, magari anche scorretto; al bar bisogna regolarsi con l’alcol e misurarsi nelle reazioni per non cedere a una rissa; in piazza bisogna sapersi allontanare dal pusher e non cedere agli adescamenti. Sappiamo perfettamente, e purtroppo ce lo dice la cronaca, che nulla di tutto questo è semplice, né automatico. Non tutti riescono, e qualcuno si perde. Come agiscono i social? Da un lato aggiungono, dall’altro amplificano. Aggiungono un ambiente che ha le sue proprie sfide, anche importanti: i ragazzi devono maturare uno sguardo sull’immagine perfetta che viene veicolata per non rimanerne schiacciati, devono combattere la FOMO per scongiurare la tentazione di partecipare ad una challenge folle; devono trattenersi dal rinunciare a parti crescenti di privacy perché qualcuno li lusinga e li conforta essere ammirati; devono equilibrare la loro vita, distribuendola su più ambienti in modo che il loro essere offline o online non mostri preponderanze disfunzionali. Poi, devono imparare a rispettare l’altro, a farsi una propria idea e a coesistere digitalmente. Ma chi può insegnare loro tutto questo? Difficilmente sarà qualcuno che sui social li spinge fin troppo presto, e che si preoccupa del profilo chiuso alla figlia, invece di domandarsi se sia stato opportuno aprirglielo.

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